La linea d’ombra di Conrad

La linea d’ombra, di Joseph Conrad, traduzione di Gianni Celati, Mondadori 2004 (pdf)

Riletto dopo molti anni ancora mi emoziona. Ho fatto qualche sottolineatura dove ho potuto fermarmi, o tornare indietro alla ricerca di una frase rimasta nei pensieri.

“The world of the living contains enough marvels and mysteries as it is.”

“The effect of prospective in memory is to make things loom large because the essentials stand out isolated from their surroundings of insignificant daily facts which have naturally faded out of one’s mind.”

“Yes. One goes on. And the time, too, goes on—till one perceives ahead a shadow-line warning one that the region of early youth, too, must be left behind.

Questa storia, che pur nella sua brevità, lo riconosco, è un’opera abbastanza complessa, non intendeva trattare il soprannaturale. Però più di un critico è stato propenso a leggerla in questo modo, cogliendovi un tentativo, da parte mia, di dare il più ampio sfogo all’immaginazione trasportandola oltre i confini del mondo in cui vive e soffre l’umanità. Ma in realtà la mia immaginazione non è fatta di stoffa tanto elastica. Credo che se tentassi di mettervi la tensione del soprannaturale fallirebbe miseramente e mostrerebbe una sgradevole lacuna. Non avrei mai potuto fare un simile tentativo, perché tutto il mio essere morale e intellettuale è permeato dall’invincibile convinzione che tutto ciò che cade sotto il dominio dei nostri sensi si trova nella natura e, per quanto eccezionale, non può essere diverso nella sua essenza da tutte le altre manifestazioni del mondo visibile
e tangibile di cui noi siamo parte consapevole. Il mondo dei vivi contiene già abbastanza meraviglie e misteri così com’è: meraviglie e misteri che agiscono sulle nostre emozioni e sulla nostra intelligenza in modi così inesplicabili da giustificare una concezione della vita quasi come uno stato incantato. No, sono troppo saldo nella consapevolezza del meraviglioso per essere affascinato dal puro soprannaturale, che (consideratelo come volete) non è altro che un artificio, l’invenzione di menti insensibili all’intima delicatezza del nostro rapporto con i morti e con i vivi, nelle loro innumerevoli moltitudini, una profanazione dei nostri ricordi più teneri, un oltraggio alla nostra dignità.

la mia esperienza personale. E di fatti si tratta di esperienza personale vista in prospettiva con l’occhio della mente e colorata di quell’affetto che non si può fare a meno di sentire per quegli eventi della propria vita di cui non si ha motivo di vergognarsi. E l’affetto è tanto intenso (faccio appello qui all’esperienza universale) quanto la vergogna e quasi l’angoscia con cui ci si ricorda di qualche sfortunato episodio, fino ai semplici errori nel parlare, che si sono commessi nel passato. L’effetto della prospettiva nella memoria è di far apparire le cose più grandi, perché quelle essenziali spiccano isolate in mezzo alle circostanze degli insignificanti fatti quotidiani che naturalmente sono svaniti dalla mente. 

(nota introduttiva dell’autore, 1920)

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LA LINEA D’OMBRA

Yes. One goes on. And the time, too, goes on-till one perceives ahead a shadow-line warning one that the region of early youth, too, must be left behind.

Già. Si va avanti. E il tempo, anche lui va avanti; finché dinnanzi si scorge una linea d’ombra che ci avvisa che anche la regione della prima giovinezza deve essere lasciata indietro. (4)

Di fronte a quest’uomo che, a quanto potevo giudicare, era molto più vecchio di me, mi resi conto di quello che mi ero già lasciato alle spalle: la mia giovinezza. Magra consolazione! La giovinezza è una gran bella cosa, una grande forza, fin tanto che non ci si pensa. Sentii che stavo diventando autoconsapevole. (44)

Sì. Mi ritrovai tra le mani una serie di complicazioni tutte preziosissime come “esperienza”. La gente ha una grande opinione dei vantaggi dell’esperienza che, in questo senso, vuol sempre dire qualcosa di sgradevole, in opposizione al fascino e all’innocenza delle illusioni. (53)

Non temeva né Dio, né il diavolo, né gli uomini, né il vento, né il mare, neanche la sua coscienza. Credo che odiasse tutti e tutto. Ma penso che avesse paura di morire. (74)

Era un pomeriggio terribilmente senza vita. Per parecchi giorni consecutivi all’orizzonte erano apparse delle nubi basse, bianche masse con scure spire posate sull’acqua, immote, quasi solide, pur cambiando sottilmente aspetto in continuazione. Verso sera, di regola, sparivano. Ma quel giorno attesero il tramonto del sole che, prima di sprofondare, parve infiammarsi e ardere tetramente in mezzo a loro. Sopra la cima dei nostri alberi riapparvero puntuali e monotone le stelle, mentre l’aria rimaneva stagnante e opprimente. (83)

Mi sembra che tutta la mia vita prima di quel giorno fatidico sia infinitamente remota, il ricordo evanescente di una giovinezza spensierata, qualcosa dall’altra parte di un’ombra. (84)

Al timone non c’era ancora nessuno. L’immobilità di tutte le cose era assoluta. Se l’aria era diventata nera, il mare, per quel che ne sapevo io, avrebbe potuto essere diventato solido. Non serviva guardare in qualche direzione, alla ricerca di qualche segno, per capire l’avvicinarsi del momento. Quando fosse arrivato, la tenebra avrebbe sommerso silenziosamente quel poco di luce che le stelle irradiavano sulla nave, e la fine di tutto sarebbe venuta senza un sospiro, movimento, o mormorio di sorta, e tutti i nostri cuori avrebbero cessato di battere, come orologi senza carica.

Era impossibile scuotersi di dosso quel senso di fine imminente. La calma che mi invase era già un preannuncio di annientamento. Mi diede una specie di conforto, come se la mia anima si fosse all’improvviso riconciliata con un’eternità di cieca quiete. Solo l’istinto del marinaio sopravviveva intatto nel mio dissolvimento morale. (86)

capitano Giles: “La verità è che nella vita non si deve dare troppo peso a nulla, né in bene né in male”… “E c’è un’altra cosa: un uomo deve saper affrontare la sua cattiva sorte, i suoi errori, la sua coscienza e tutto quel genere di cose. Contro cos’altro si dovrebbe combattere altrimenti?”… “Nella vita c’è ben poco riposo per tutti. Meglio non pensarci”. (104)

Quando tornai sulla nave la prima cosa che vidi fu Ransome sul cassero seduto quietamente sulla sua cassetta da marinaio accuratamente legata.

Gli feci cenno di seguirmi nella saletta, dove mi sedetti per scrivere una lettera di raccomandazioni per lui a un tale che conoscevo a terra.

Appena finita la spinsi attraverso il tavolo. “Può esserti utile quando lascerai l’ospedale”.

La prese e se la mise in tasca. I suoi occhi guardavano lontano da me – nel vuoto. Il volto era ansiosamente teso.

“Come ti senti adesso?”, chiesi.
“Non mi sento male adesso, signore”, rispose rigido. “Ma ho paura di quel che può capitare…”. Il melanconico sorriso gli tornò sulle labbra per un istante. “Ho … ho una fifa tremenda per il mio cuore, signore”.

Mi avvicinai tendendogli la mano. I suoi occhi, che non mi guardavano, avevano un’espressione tirata. Come di un uomo che tenda l’orecchio a un segnale d’allarme.

“Non vuoi che ci stringiamo la mano, Ransome?”, chiesi con delicatezza.

Uscì in un’esclamazione di sorpresa, si fece di fuoco, mi strinse forte la mano e, subito dopo, rimasto solo nella saletta, lo ascoltai salire cautamente la scala, gradino dopo gradino, con la paura mortale di destare improvvisamente l’ira della nostra comune nemica che era suo duro destino portare consapevolmente nel suo petto leale. (106)

La voce narrante del capitano Kent.