Complottismo e potere

Il complottismo è un segno dei nostri tempi e non ce ne libereremo facilmente, di Matteo Pascoletti,  ValigiaBlu.

…chiunque può cadere “nella tana del Bianconiglio”

In Italia, nel manicheismo semplificatorio dell’informazione mainstream, il “complottismo” si muove di solito tra “webeti”, “analfabeti funzionali”, “avvelenatori di pozzi”, “populisti”, gli “scappati di casa” e i diffusori di “fake news”. Il complottista si presume esterno alla comunità di riferimento: si è complottisti per contrapposizione. Tuttavia per capire la fisica delle narrazioni complottiste, bisogna interrogare la metafisica del complotto.

Se dubbio e sospetto sono premesse per una conoscenza maggiore, e accompagnano lo spirito critico, nella narrazione complottista essi sono reificati proprio perché assoluti o destinati a essere confermati da qualunque evidenza, e quindi neutralizzati e messi al servizio delle strutture di potere dominanti.

Ha perso vigore la nostra capacità di ragionare e relazionarci ai simboli, di usare il mito come “griglia interpretativa” o “insieme di chiavi ermeneutiche”. Per cui nel convivere con il volto segreto del potere, a tutto quell’insieme di apparati o pratiche che intuiamo muoversi nell’ombra, colmiamo quel vuoto con ciò che abbiamo a disposizione. Da questo punto di vista, la “narrazione complottista” è il prodotto del “cibo mitologico” che riusciamo a reperire nella civiltà dominata della tecnica. La sua “gravità mortifera” impasta passato, presente e futuro, tecnologia e leggenda.

Scrive Di Cesare: “La ricerca della causa è insieme anche l’accusa. E questa imputazione contiene, implicita, la condanna morale. Ma svelare un complotto vuol dire non solo denunciare il colpevole, bensí anche stigmatizzarlo come nemico politico, spesso anche demonizzarlo. La denuncia è già una levata di scudi, l’inizio di una caccia alle streghe, se non una chiamata alle armi o addirittura la licenza per uno sterminio.”  (Il complotto al potere, di Donatella Di Cesare, Einaudi 2021)

Su questa “singolarità cospirazionista” si concentra in particolare Leonardo Bianchi nel suo nuovo libro, Complotti! (minimum fax). Opera dove il giornalista sistematizza, espande e raccorda quanto disseminato nell’omomina newsletter, lavorando come uno storico del presente in una fase politica paradossale, che così riassume: “Ci troviamo in una contingenza storica in cui le teorie del complotto sono simultaneamente rigettate e accettate“.

Bianchi ripercorre origini e continuità nel presente dei complottismi, li analizza come vettori di radicalizzazione perfettamente integrabili con pezzi di politica istituzionale, mondo scientifico e accademico e media mainstream. La narrazione complottista, insomma, è anche un dispositivo di potere sociale ed economico. Dietro i profeti della controinformazione, dietro i proclami rivoluzionari, si muove a sua volta un potere che vuole rimanere segreto o sottotraccia nelle sue intenzioni. Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un concorrente commerciale del falso.

Bianchi riprende a fine libro i consigli dello psicologo Jovan Byford, vere e proprie “regole di ingaggio”: riconoscere la portata del compito, riconoscere la dimensione emotiva, comprendere ciò in cui l’interlocutore crede, stabilire un terreno comune, sfidare le prove fornite contestualizzando storicamente la narrazione complottista e, infine, essere realistici. A volte infatti, il massimo che si può fare è seminare un dubbio e lasciare che in qualche modo agisca da leva per scardinare dogmatiche certezze. Ma qualunque strumento impiegabile diventa inservibile senza recuperare la connessione autentica nel relazionarsi.

Di Cesare:Ridurre il complottismo a un fenomeno patologico, a una devianza che viola la norma della verità stabilita, è del tutto controproducente e, anzi, innesca il meccanismo perverso di una spirale infinita. […] Proprio perché il complottismo è un’arma di depoliticizzazione di massa, è necessaria una riflessione politica che contribuisca a congedarsi da quello schema esplicativo totalizzante. Come sempre, comprendere non è giustificare, e non comporta, quindi, nessuna indulgenza.