Il verme la rosa e la mosca.

Pensieri della Mosca con la testa storta,  Giorgio Vallortigara, Adelphi 2021. (PDF)

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INTRODUZIONE

madeleine uditiva (8)

1 – LA COSCIENZA DEL VERME

Qui per «coscienza» intendo il fatto di avere esperienze, di provare, di sentire qualcosa quando si sfiora una guancia con le dita, si odora della menta o si guarda il fondo di una pentola bruciacchiata… E la confusione è causata dal mescolare liberamente il tema dell’avere coscienza con quello del mostrare certi comportamenti. Non è ovvio quando e perché alcuni comportamenti, semplici o complessi, siano accompagnati da un sentire, dal fatto di avere esperienze.
Vi sono due argomenti nell’odierna riflessione sulla coscienza che io disdegno moltissimo, sebbene siano largamente accettati tra i miei colleghi. Il primo è relativo all’esistenza di un gradualismo nelle esperienze, e perciò all’ipotesi che altri animali possano essere sì consapevoli, ma solo un poco… Il secondo argomento è importante per i temi trattati in questo libro. La coscienza, il fatto di avere esperienze, di sentire qualcosa, è secondo molti miei colleghi legata alla quantità o alla ricchezza di strutturazione degli elementi del sistema nervoso. Spesso i due argomenti vengono combinati assieme. (11)

sosterrò la tesi abbastanza estrema che le forme basilari della vita mentale non necessitino di grandi cervelli, e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali sia probabilmente al servizio dei magazzini di memoria, non dei processi del pensiero o della coscienza. (p.12)

2 – ROBINSON, IL BRUCO E LA FARFALLA

noi esseri umani veniamo al mondo ben attrezzati per fronteggiare i dilemmi che nascono dalla vita di relazione. (15)

Humphrey divide con la primatologa Alison Jolly la primogenitura dell’idea che menti complesse si sviluppino in gruppi sociali dove gli individui debbano intessere trame intricate nei rapporti interpersonali, come accade tra gli esseri umani, ma anche, in una certa misura, tra altre creature: mammiferi quali le scimmie antropomorfe o uccelli come i corvi. L’idea di Humphrey e Jolly ha aperto la strada alla nozione della cosiddetta «teoria della mente», la capacità umana di rappresentarsi gli stati mentali altrui, e all’interrogativo se i rudimenti di essa siano rintracciabili in altre specie.(15)

Mano a mano che l’intelligenza domina sull’istinto, i corpi fungiformi e i lobi antennali diventano più grandi rispetto al volume complessivo del cervello, come si può notare confrontando scarafaggi, locuste, vespe solitarie e, infine, api sociali, dove i corpi fungiformi rappresentano ben 1/5 del cervello e 1/940 dell’intero corpo. (20)

Sorprendentemente, però, la comparsa di corpi fungiformi di grandi dimensioni, che ricevono e integrano informazioni sia olfattive sia visive, non la si osserva con il presentarsi della socialità, bensì circa novanta milioni di anni prima. Erano parassitoidi, del tipo delle attuali vespe solitarie

(22)

È possibile, perciò, che gli adattamenti alla vita sociale delle api si siano sviluppati impiegando le dotazioni neurali che esse avevano già a disposizione, dotazioni evolutesi cioè quasi cento milioni di anni prima, con l’avvento dei parassitoidi. Proviamo a considerare qualcuna di queste abilità sociali, per comprenderne meglio la natura. (23)

3 – LA PIÙ DIVERTENTE SUPERFICIE DELLA TERRA

fin dalla nascita.. la faccia canonica suscita una risposta elettroencefalografica molto più intensa rispetto alla faccia sottosopra. (24)

Questa tendenza a vedere facce negli oggetti inanimati, o «pareidolia», si è sempre creduto dovesse riflettere meccanismi squisitamente culturali, unici della specie umana, quali l’esposizione a immagini che antropomorfizzano gli oggetti, come accade nei cartoni animati o nei libri illustrati. Il fatto che la pareidolia si possa osservare nelle scimmie suggerisce invece che abbia un fondamento di tipo biologico. (26)

Prestare attenzione ai volti fin dalla nascita consente di impararne in modo più rapido le caratteristiche, il che è molto importante per animali come le scimmie, i polli o gli esseri umani che si riconoscono singolarmente e che, sulla scorta di questo riconoscimento, possono prevedere il comportamento dei diversi individui – chi è aggressivo, generoso o bullo – e cogliere il rango di ciascuno nell’organizzazione della società (dall’ordine di beccata dei polli, alle complesse strutture sociali delle scimmie o degli esseri umani).

Prosopoagnosia. difficoltà nel riconoscimento dei volti sono presenti in circa il 2 per cento degli esseri umani fin dalla nascita. esistono altresì i cosiddetti «super-riconoscitori», individui che in assenza di addestramenti specifici appaiono essere straordinariamente dotati nel riconoscere i volti. (29-30)

Comunque, tutte le vespe che riconoscono le facce, anche le cartonaie P. fuscatus, posseggono mini-cervelli, né più né meno di quelli delle api: un milione scarso di neuroni. Nulla a che vedere con i numeri di scimmie, corvi o esseri umani. Ciò induce a chiedersi se le componenti di base della cosiddetta intelligenza sociale esigano davvero così tanta capacità cerebrale come si è soliti credere.(31)

4 – CERVELLI PER OGNI OCCASIONE

Il principio che tanto più è specializzata una funzione tanto maggiore sarà l’estensione del tessuto cerebrale che le viene dedicato non vale solo per la percezione sensoriale, ma si estende all’apprendimento e alla memoria.(32)

relazione tra il comportamento sociale e lo sviluppo di certe aree del cervello, in special modo della corteccia, due diversi aspetti: uno qualitativo, lo sviluppo di capacità specializzate associate alla vita sociale, come riconoscere le facce; l’altro quantitativo, l’aumento generalizzato di capacità in relazione alla maggiore complessità della vita sociale, (33)

Numero di Dunbar: grandezza tipica dei gruppi sociali in varie specie di primati, correlandola con le dimensioni delle loro cortecce cerebrali. Per la specie umana sarebbe di circa centocinquanta persone, quelle con le quali intratteniamo relazioni stabili e durevoli. Banda tra i trenta e i cinquanta; tribù tra cinquecentio e duemilacinquecento; clan tra cento e duecento individui. (33)

Dunbar ritiene di aver individuato delle vestigia del clan,  di questo raggruppamento fondamentale nella nostra odierna vita sociale: in tutti gli eserciti umani la minima unità indipendente è costituita in media da 179,6 individui; le cartoline di auguri natalizi sono spedite in media a 153,5 individui; nell’organizzazione aziendale gruppi composti da meno di 150 persone lavorano meglio con una modalità di interazione personale diretta, mentre quando il numero aumenta c’è bisogno di fissare una gerarchia formale.

Secondo Dunbar la relazione tra grandezza del cervello e funzioni cognitive dovrebbe essere considerata nei termini di un problema di elaborazione delle informazioni: se c’è più informazione da elaborare, allora serve un substrato neuronale più ampio. Perciò, quando si vive in gruppi sociali più grandi, sono necessari cervelli più grandi. (34)

L’alternativa può essere quella di specializzare gruppi di individui a svolgere funzioni diverse, per esempio nelle formiche.

Nelle società di animali come i primati, che sono basate sugli individui, una maggiore complessità della vita sociale può essere affrontata dotando tutti i singoli di una maggiore capacità cerebrale in maniera generalizzata (poniamo, più spazio di memoria). (35)

5 – FACCE, FIORI E PROFILI

Le specie capaci di riconoscere le facce mostrano, rispetto a quelle incapaci di farlo, una riduzione di grandezza nei nuclei deputati all’elaborazione dell’informazione olfattiva, il che rispecchia un maggior ruolo delle informazioni visive rispetto a quelle olfattive nell’interazione sociale, ma nessuna differenza nei nuclei deputati all’elaborazione dell’informazione visiva di per sé. (37)

Le api possono imparare a discriminare stimoli semplici costituiti da tre elementi, disposti a guisa di faccia o di non-faccia, come quelli usati negli esperimenti con i neonati. 

Possono altresì essere addestrate a riconoscere stimoli più naturalistici, come la fotografia del viso di una persona in quanto distinta da quella di un’altra. Se le caratteristiche di un volto vengono mescolate in maniera casuale, le api perdono la capacità di riconoscere il volto. esattamente come accade negli esseri umani. (38)

Studi condotti con i neonati suggeriscono che questi non sappiano generalizzare, riconoscendo come eguali le immagini di uno stesso volto mostrate di fronte e di profilo. Sono capaci di farlo, però, se la rotazione angolare è di soli quarantacinque gradi, con il volto ruotato di tre quarti anziché di novanta gradi… Anche le persone adulte hanno difficoltà a generalizzare dai volti visti di fronte a quelli visti di profilo e viceversa, plausibilmente per via della diminuita informazione percettiva sulle caratteristiche interne del volto visto di profilo. (39)

Api (dopo addestramento) e vespe cartonate (senza addestramento): non sembra servano grandi cervelli né dei cervelli particolarmente specializzati per discriminare le facce.

6 –  VOLTI DELLA MEMORIA

Molti fatti sembrano suggerire che la discriminazione dei volti negli esseri umani e in altri mammiferi sia una specializzazione adattativa. Un esempio è fornito dalle pecore. Nella regione del lobo temporale, dove si osservano, sia nell’uomo sia nelle scimmie, cellule nervose che rispondono selettivamente ai volti, le pecore posseggono, oltre a cellule che rispondono alle facce di pecore o ai volti dei pastori, cellule che rispondono in maniera specifica alla presenza di corna. (42)

Api: specializzazione adattativa per il riconoscimento di facce non è necessaria per riconoscere le facce: la discriminazione può essere condotta co-optando e ri-utilizzando meccanismi che si sono evoluti per altri scopi, come riconoscere i fiori. (43)

le cellule sensibili ai volti forniscano una rappresentazione esplicita dell’individuo cui si riferiscono.

I neuroni «che avanzano» nei grandi cervelli non servono per il pensiero, sono lì invece per la mera gestione di grandi memorie. Per dirla nel gergo degli informatici, sono memorie di massa, non CPU.

per riconoscere i volti poche centinaia di neuroni sono sufficienti. Il problema semmai è la memoria dei volti. (44)

Le pecore ricordano le facce di 50 altre pecore, forse di più. Le galline ricordano le facce di centinaia di facce sia di galline sia di esseri umani. Gli umani possono ricordare migliaia di facce.

non si tratterebbe di possedere processori più sofisticati, ma solo hard disk più capienti.

le differenze di memoria potrebbero tradursi in differenze nelle prestazioni cognitive, perché possedere più neuroni offre la possibilità di eseguire i calcoli in tempi più brevi. I tempi di riconoscimento sono molto più lunghi nei bombi di quanto non siano per umani e primati.

Teorici come Kevin O’Regan hanno sostenuto persuasivamente che «vedere» non significa generare delle rappresentazioni nel cervello; vedere sarebbe piuttosto qualcosa che un organismo fa, qualcosa che egli compie. Come aveva già proposto Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), la visione è «palpazione con lo sguardo». Vedere, secondo questa concezione, sarebbe un’attività esplorativa mediata dalla conoscenza delle contingenze sensorimotorie. In certo qual modo, argomenta O’Regan, vedere non è diverso da ricordare: in entrambi i casi, così come nell’immaginazione, sarebbe in gioco un continuo processo attivo di interrogazione e di controllo, solo che nella visione è il mondo reale che serve da memoria esterna e da controllo.

Per campionare il mondo gli animali dotati di mini-cervelli hanno bisogno di più tempo, perché posseggono meno neuroni, ma in natura possono compensare questo svantaggio con un’attività motoria molto veloce e molto intensa, come fanno ad esempio mosche e moscerini(45)

7 – GRANDI CONCETTI PER PICCOLI CERVELLI

nessuno qui vuole sostenere che le api riconoscano uno stile pittorico interpretandone il contenuto in maniera semantica. L’inferenza malevola che ci vogliano pochi neuroni per fare il critico d’arte è azzardata. Meno temerario è invece concludere che la discriminazione percettiva di uno stile pittorico non rappresenti una funzione cerebrale complessa, che si può osservare solo in cervelli ricchi di neuroni come quelli degli esseri umani. La capacità di estrarre e raggruppare le caratteristiche di immagini complesse è accessibile anche ai mini-cervelli dotati di meno di un milione di neuroni.

11 – UN APPROCCIO MINIMALISTA AL PROBLEMA DELLA COSCIENZA

(vedi: La coscienza agli ioni, mio commento al commento di Koch alla lettera di Oliver Sacks, Antonio Damasio, Gil B. Carvalho, Norman D. Cook, Harry T. Hunt)

È probabile che l’attività metabolica, l’omeostasi biochimica, non sia sufficiente per spiegare le originio della coscienza. (83)  Tuttavia…

Penso che Damasio e colleghi abbiano centrato un punto importante sottolineando il ruolo delle proprietà di eccitabilità della membrana cellulare. In fondo gli eventi importanti, come abbiamo visto, avvengono al confine, ai bordi. Lì si realizza concretamente anche il più enigmatico processo di alcuni sistemi biologici: quello di un interno che si definisce attivamente rispetto a un esterno, la coscienza.
Ma quando diventa necessario definire attivamente un interno rispetto a un esterno? E perché? Ridotta all’osso, l’idea di Damasio, Sacks e colleghi è che quando le cellule animali si aprono e si chiudono al mondo esterno, attraverso l’afflusso e il deflusso di ioni, stanno facendo qualcosa di più che rispondere agli stimoli esterni. L’afflusso e il deflusso di ioni potrebbe essere, secondo questi studiosi, alla base della coscienza. Ma il problema è che, come essi stessi riconoscono, l’afflusso di ioni determina già nei protozoi movimenti semplici di flagelli e pseudopodi in risposta agli stimoli esterni. Questi movimenti sono determinati dalle variazioni di concentrazione degli ioni nel citoplasma. Perché dunque queste creature dovrebbero essere senzienti dello stimolo che arriva al loro confine, considerato che possono rispondere adeguatamente a esso senza alcuna esplicitazione di una distinzione tra ciò che è fuori e ciò che è dentro tale confine? In altre parole, quando accade (e perché accade) che la distinzione tra «sé» e «non-sé» diventa necessaria per un organismo? (84-85)

12 – L’odore della rosa

Nicholas Humphrey osserva che essere sensibili significava avere una reattività locale, cioè essere capaci di produrre una risposta limitatamente al luogo della stimolazione, per esempio un raggrinzirsi della membrana in risposta a uno stimolo nocivo. Un genere di rappresentazione, quindi, di quello che accade alla superficie dell’organismo, cioè di quanto accade ad esso, all’organismo medesimo. Modificare omeostaticamente i propri stati corporei doveva essere importante alle origini delle menti. ….

Lo stimolo, tuttavia, non è solo qualcosa che arriva sulla membrana cui è opportuno reagire localmente. Può essere il segno distintivo di qualcosa là fuori, di qualcosa che è esterno ai confini del proprio corpo e non semplicemente «sul» proprio corpo, cioè sul proprio bioconfine.

L’idea viene da Thomas Reid (1710-1796) – I sensi esterni esercitano una doppia funzione, ci fanno sentire e ci fanno percepire. Ci forniscono diverse sensazioni, alcune piacevoli, altre spiacevoli o indifferenti; nello stesso tempo, ci dànno una concezione e un’irresistibile credenza nell’esistenza degli oggetti esterni. Questa concezione degli oggetti esterni è opera della natura. La credenza nella loro esistenza, prodotta dai nostri sensi, lo è altrettanto, così come la sensazione che l’accompagna. Questa concezione, accanto alla credenza che la natura produce per mezzo dei sensi, la chiamo percezione. Il sentimento che l’accompagna lo chiamo sensazione … La percezione ha sempre un oggetto esterno; e l’oggetto della mia percezione, in questo caso, è quella qualità della rosa che io discerno con il senso dell’olfatto. …. Reid è preoccupato delle conclusioni scettiche che derivano dalla filosofia di David Hume, secondo il quale la conoscenza empirica non potrà mai dirci nulla di certo sull’esistenza degli oggetti esterni, essendo tale conoscenza basata sulle sensazioni contingenti. Ma per Reid i sensi esterni esercitano una doppia funzione, ci fanno sentire, ma ci fanno anche percepire gli oggetti esterni. Egli usa l’esempio dell’odore della rosa per chiarire la sua ipotesi. Il profumo della rosa che possiamo odorare per sé stesso, senza riferimento all’oggetto rosa, costituisce la sensazione. Esiste fintanto che qualcuno lo può odorare. (87-88)

Nelle circostanze della vita ordinaria la distinzione tra sensazione e percezione può apparire peregrina, perché la nostra attenzione è di norma rivolta agli oggetti esterni anziché alle nostre sensazioni. Fondamentale nella sensazione è però il suo carattere edonico, che deriva, secondo Reid e Humphrey, dalla sua origine motoria: gli stimoli che giungono sulla superficie dell’organismo, sui suoi confini, sono piacevoli o spiacevoli, e l’organismo  reagisce con una risposta appropriata. La luce scotta? Come manovra difensiva, la membrana si raggrinzisce o s’arrossa. L’odore è buono? L’orifizio che consente la penetrazione dei gas presenti nell’aria si schiude per accoglierlo. Gli organismi primitivi possedevano una sensibilità agli stimoli (come per esempio la luce, le vibrazioni meccaniche o il tasso di salinità dell’acqua) diffusa su tutta la superficie del corpo. Non si trattava ancora di recettori specializzati, ma di ciglia che avevano probabilmente una funzione sia sensoriale sia motoria.(88-89)

La vista cieca e la scimmia Helen. Una ablazione della corteccia impediva alla scimmia di vedere ma nonostante ciò evitava gli ostacoli e prendeva il cibo. Si tratta di una percezione che non si accompagna a una sensazione cosciente. (91)

13 – «PRIMUM MOVENS»

La semplice reazione corporea non richiede di per sé una percezione distinta da una sensazione. La reazione può essere rappresentata ad esempio dalla diretta attività delle ciglia, quando questo tipo di strutture fungeva a un tempo da meccanismo recettivo e propulsivo. Il tipo di movimento attivo che stiamo discutendo è infatti diverso da quello che si osserva in animali unicellulari che si spostano mediante ciglia.(95)

Il movimento in animali unicellulari, p.e. il paramecio che si muove avanti e indietro sulla base della concentrazione degli ioni calcio nelle ciglia: se è bassa le ciglia battono verso la porzione posteriore, se è alta verso quella anteriore. Così, quando l’animale incontra un’area chimicamente nociva, la permeabilità della membrana agli ioni calcio cambia, consentendo l’ingresso degli ioni e il battimento delle ciglia verso l’estremità posteriore, e ciò fa sì che l’animale si muova all’indietro.

La distinzione fra sé e non-sé diventa indispensabile quando il movimento che compie l’organismo è attivo: “diventa fondamentale distinguere i segnali sensoriali che vengono dal mondo là fuori da quelli che sono invece la conseguenza dei movimenti dell’organismo stesso nel mondo. Allora, e solo allora, l’organismo deve distinguere in modo esplicito tra sé e non-sé: tra le cose che gli accadono e le cose che lui stesso fa accadere. Quello che chiamiamo senziente è un organismo che deve in primo luogo distinguere tra i segnali che genera egli stesso e quelli che sono generati sulle sue membrane da tutto ciò che è altro da lui. Per avere il genere di movimento attivo che renda possibile «sentire» la stimolazione è necessario disporre di un distinto sistema recettoriale che agisca su un distinto sistema motorio. Ci vogliono insomma neuroni e muscoli.” (97)

14 – PRIMI ANIMALI, PRIMI NEURONI

Sembra che i primi animali apparsi sulla terra non siano le spugne ma gli ctenofori.

Animali pluricellulari o metazoi Gli animali pluricellulari (o metazoi nel gergo dei biologi) vengono distinti in cinque gruppi: i poriferi (le spugne), i placozoi (vagamente somiglianti alle amebe, e dei quali è stata descritta una sola specie), gli cnidari (meduse, coralli), gli ctenofori, di cui abbiamo detto sopra, e i bilateri (tutti gli animali a simmetria bilaterale, che rappresentano il 99 per cento delle specie viventi, inclusi artropodi e vertebrati). (99)

Gli ctenofori posseggono sia neuroni che muscoli. Potrebbero essere il gruppo divergente.

Muscoli e neuroni consentono la locomozione e quindi comportamenti molto più articolati agli animali. Ma questo di per sé non giustifica che si debba «sentire» qualcosa quando la superficie è stimolata. Ancora non si vede la ragione, il perché della sensazione. (103)

15 – LA MOSCA DELLA TESTA STORTA

La mosca Eristalis ha un collo sottile e mobile, che rende possibile ruotare gentilmente il suo capo di centottanta gradi attorno all’asse longitudinale e fissarlo con della colla al torace.

L’esperimento è stato descritto nel 1950 da Erich von Holst (1908-1962) e Horst Mittelstaedt, all’epoca suo studente. L’obiettivo era chiarire quali fossero i processi dinamici che regolano il rapporto tra gli impulsi in arrivo al sistema nervoso tramite gli organi di senso (la cosiddetta afferenza) e quelli che vengono trasmessi, in forma diretta o indiretta, alla periferia, cioè ai muscoli (la cosiddetta efferenza).

Lorenz scrive:Il più importante passo avanti di tutti i nostri tentativi di comprendere il comportamento sia animale sia umano è secondo me l’individuazione di questo fatto: la struttura nervosa elementare che è sottesa al comportamento non consiste di un recettore, di un neurone afferente che stimola una cellula motoria, e di un effettore attivato da quest’ultimo. L’ipotesi di von Holst, che noi possiamo tranquillamente far nostra, dice che l’organizzazione nervosa centrale di base consiste di una cellula che produce in permanenza una stimolazione endogena, ma che è impedita dall’attivare il suo effettore da un’altra cellula, la quale, producendo essa pure una stimolazione endogena, esercita un effetto inibitorio. È questa cellula inibitoria che viene influenzata dal recettore, e che cessa la sua attività inibitoria nel momento biologicamente «giusto».

Von Holst introdusse un approccio cibernetico allo studio dell’etologia, sostenendo tra i primi, in un’epoca dominata dalla teoria dei riflessi e dal behaviorismo, che i fenomeni del comportamento si spiegano come causati non da stimoli esterni, bensì da meccanismi di regolazione e autoregolazione. Gli animali non reagiscono come se fossero degli involucri vuoti modellati dagli stimoli ambientali, ma come sistemi attivi che anticipano e prevedono gli esiti e le conseguenze degli stimoli ambientali. È il caso appunto della relazione tra l’afferenza sensoriale e l’efferenza motoria. (107)

Tuttavia esperimenti che portavano a queste conclusioni erano già stati fatti in precedenza a partire dall’ottocento ma vengono riconosciuti solo dopo von Holst e Sperry (1913-1994),

Naturalmente il concetto di copia efferente/scarica corollaria (o «principio di reafferenza») è andato poi incontro ad alcuni sviluppi. Il fisico e cibernetico Donald MacKay ha introdotto il concetto di feedforward per meglio rendere, in termini quantitativi, la semplice idea della cancellazione del segnale ad opera della copia efferente ipotizzata da von Holst.

La storia della mosca dalla testa storta rende palese il problema che lo sviluppo della locomozione ha comportato per gli animali: la necessità di discriminare due varietà della stimolazione, che non sono distinguibili nei termini dell’effetto che esercitano sulle membrane, ma che lo sono nei termini della loro origine. Il modo per determinarla passa attraverso un circuito che re-invii il comando della risposta corporea al sistema che deve decidere su quello che viene ricevuto. A questo punto la stimolazione sulla membrana diventa un esplicito «sentire», perché adesso l’organismo deve distinguere tra ciò che accade a lui e ciò che accade là fuori, deve cioè rappresentarsi attivamente rispetto a un esterno.(114)

l’esperimento di Steinbuch: Immaginate di muovere il vostro dito fino a quando incontra un ostacolo. Cosa sentite al momento del contatto? Sentite che c’è qualcosa là fuori che con il tocco siete andati a incontrare. Non sentite però nulla che sia accaduto a voi, a meno di compiere uno sforzo attivo per concentrare l’attenzione sul dito anziché sull’ostacolo. Ma se fate il contrario e, a occhi chiusi, chiedete a qualcuno di muovere un oggetto fino a che non incontri il vostro dito,
avrete l’impressione che qualcosa sia accaduto a voi, sull’epidermide del vostro dito. Nel primo caso, la copia efferente ha annullato la sensazione (quel che succede a voi) rendendo oggettiva la presenza di un ostacolo esterno. Nel secondo caso, l’assenza di copia efferente lascia il «sentimento» di qualcosa che accade alla superficie tra sé e non-sé. 

Io credo però, con Reid e Humphrey, che la comparsa della coscienza sia legata prima di tutto alla possibilità stessa della sensazione, in quanto distinta dalla percezione, che viene resa possibile sfruttando il meccanismo di retroazione…..Nondimeno un problema permane, e richiede una discussione più approfondita.(117)

16 – IMMINENZA DI UNA RIVELAZIONE

Gli organismi che si muovono in maniera attiva debbono poter distinguere negli stimoli che giungono agli organi di senso quelli che sono genuinamente prodotti dagli oggetti esterni da quelli che sono invece generati come risultato dei loro stessi movimenti. Nel secondo caso la stimolazione sensoriale è per così dire cancellata dalla copia efferente. Tuttavia se restiamo confinati a una generica relazione tra percezione e azione ci troviamo in un’impasse. La copia efferente cancella la percezione quando questa è il risultato di un movimento attivo, ma cosa accade quando invece percepiamo qualcosa? Più precisamente, quando «sentiamo» qualcosa, perché, come abbiamo già notato, si può percepire benone senza sentire nulla. (118)

Un’ipotesi è che il tempo giochi il ruolo cruciale, perché per poter effettuare il confronto il comparatore deve ricevere i due segnali assieme, per esempio ritardando quello che arriva per primo, un po’ come avviene nel rilevatore di Reichardt. Questo aspetto del ritardo temporale è in qualche modo specifico e inerente al principio di reafferenza, nel senso che non poteva essere presente, non aveva ragione d’essere, prima della sua comparsa.(119)

La copia efferente anticipa il sopraggiungere del segnale sensoriale, perciò quando arriva il segnale e non c’è una copia efferente ad aspettarlo si osserverà solo il ritardo necessario all’operare del comparatore (all’operare di un interneurone).

quando c’è una copia efferente ad aspettare il segnale sensoriale non è concepibile che il segnale motorio corollario sia ritardato o mantenuto in memoria ad infinitum, in attesa che arrivi il segnale prodotto dalla stimolazione sensoriale, perché il segnale sensoriale potrebbe anche non giungere affatto. La soluzione potrebbe essere quella di effettuare un campionamento a intervalli temporali discreti di valore minimo, al termine di ciascun intervallo vi sarebbe «sentire» se nessuna scarica corollaria ha cancellato il segnale, oppure la mera percezione di un oggetto esterno se la scarica corollaria ha invece annullato il «sentire». Il ritardo naturalmente non dipende dalla velocità dell’effettore (per esempio dal tempo necessario a un arto per percorrere la distanza che lo porta a toccare un oggetto), e neppure dalla velocità con cui si muove un oggetto che potrebbe eventualmente fornire la stimolazione. Ciò che conta davvero è la variazione nella stimolazione (ancora una volta, la differenza).

La nuvola nera, romanzo di Fred Hoyle, racconta di una gigantesca nuvola di gas interstellari in avvicinamento alla Terra: non serve conoscere velocità della nuvola basta calcolare di quanto l’immagine si è ingrandita in un determinato tempo. (120)

Essenzialmente il principio di reafferenza stabilisce che l’organismo sia in grado di prevedere la conseguenza sensoriale della propria azione, cioè la stimolazione che dovrebbe sopraggiungere come risultato dei suoi movimenti….. Quando tocco qualcosa, perché sia possibile stabilire se «lo sento», cioè se è successo a me, sarebbe allora sufficiente che venisse inviato assieme al segnale sensoriale un segnale corollario, sensoriale/corporeo, che il comparatore confronti con il segnale corollario motorio («ritardato» ovviamente, perché quest’ultimo è avvenuto prima). In questo caso i due segnali corollari si annullano a vicenda e quindi non ho sensazione, ma solo percezione: …. Viceversa, qualcosa mi tocca e per stabilire se «lo sento» viene inviato il segnale sensoriale/corporeo al comparatore: siccome non c’è segnale motorio – io non mi sono mosso –, viene registrato che qualcosa è successo sulla membrana.(123)

Esempio del dito (124) In breve, quello che chiamiamo sentire altro non sarebbe che il segnale sensoriale, trattenuto nel tempo, in attesa di una rivelazione, cioè di un confronto tra il segnale corollario sensoriale/corporeo e la copia efferente di un’azione motoria che potrebbe o meno essere già sopraggiunta. Quindi sì, una memoria, ma di una specie particolare perché si tratta in effetti della memoria di una reazione corporea, che porta con sé il senso di essere stata compiuta (da cui il senso di appartenenza e autorialità della sensazione) e il suo valore edonico: è benefica, lascio il dito lì; è nociva, lo allontano…

Non ho prove dirette per quest’ipotesi, ma mi sembra plausibile perché l’anatomia offre ampia evidenza di connessioni centrifughe rientranti nei sistemi sensoriali.(125)

L’aspetto enigmatico della vista cieca è che i pazienti debbono essere convinti di poter vedere per rivelare le loro capacità.(125)

Lasciatemi sottolineare ancora una volta come, quale che sia il modo giusto di descrivere il circuito necessario, nella sua configurazione minima, perché ci sia «sentire», il messaggio fondamentale rimanga sempre lo stesso: l’informazione dimora nelle differenze. «Sentire» non può che riferirsi a una qualche differenza. Fino a quando gli organismi non si muovevano e non si trovavano di fronte al problema di distinguere tra una stimolazione provocata da uno stimolo esterno che arrivava sulla superficie dell’organismo e una stimolazione provocata dal movimento attivo dell’organismo la cui superficie incontrava uno stimolo esterno, non esisteva alcuna differenza, e quindi non esisteva alcuna sensazione. (126)

17 – L’ESPERIENZA IN BREVE

riassumere in breve (127) Sic!

Thomas Reid ha proposto per primo di distinguere ciò che accade a noi (sensazione) da quello che accade là fuori (percezione). E abbiamo appreso, dalla clinica neurologica, come la percezione possa in effetti essere inconsapevole, ad esempio nella vista cieca. (127)

La mia proposta è che se ammettiamo che la risposta sensoriale originaria fosse una contrazione localizzata del corpo (più precisamente, della membrana) potrebbe essersi evoluta una copia efferente di questo segnale di movimento corporeo oltre che l’usuale copia efferente conseguente al movimento attivo. E sarebbe la copia del segnale corporeo che viene confrontato nel comparatore con la copia del segnale conseguente al movimento attivo. (128)

I primi organismi dotati di movimento attivo si sono trovati nella necessità di produrre uno sdoppiamento in un segnale sensoriale altrimenti unitario: qualcosa ti tocca perché ti è venuto addosso o perché tu muovendoti gli sei andato addosso? L’artificio che può permettere questo sdoppiamento è il fenomeno della copia efferente o scarica corollaria. Ogni volta che l’organismo mette in atto un movimento attivo, viene generata una copia del comando relativo al movimento che viene confrontata con il segnale sensoriale in ingresso, per modo che quest’ultimo ne risulti cancellato. Come hanno notato molti autori, questa che viene posta in essere dal meccanismo di copia efferente costituisce in effetti una primitiva distinzione tra sé e non-sé, il passo cruciale per la comparsa della coscienza (alias esperienza, nell’accezione del termine che usiamo qui). (128)

L’esperienza è associata alla sensazione, a quello che succede a noi, e si manifesterebbe perciò proprio quando il segnale di copia efferente non è presente, quando cioè il segnale sensoriale non viene annichilito dalla scarica corollaria. Si noti, a questo riguardo, che quasi tutti gli autori sembrano credere il contrario perché, non distinguendo tra sensazione e percezione, associano il ruolo dell’azione motoria alla percezione.(128)

Assieme al segnale sensoriale, perciò, viene generata una scarica corollaria che consegue a un’attività corporea reattiva – un segnale che, con un po’ di ritardo rispetto al segnale sensoriale, giunge al comparatore. Poiché abbiamo mosso attivamente il braccio, il segnale corporeo viene cancellato da questo segnale corollario motorio. Il risultato è che dal comparatore fuoriesce un segnale sensoriale svuotato del succo della reazione corporea. Mancando la componente dell’azione, quel sentire non è un vero sentire, un’esperienza, perché manca della giustificazione fornita dalla proprietà (ownership), la quale gli deriva solitamente dal fatto che l’organismo è l’esecutore, l’autore della contrazione corporea. Non è una sensazione, quanto piuttosto la percezione di un oggetto là fuori. Viceversa, se l’arto non viene mosso attivamente ma il dito viene stimolato in modo passivo, la risposta di contrazione corporea locale non può essere cancellata dalla scarica corollaria conseguente al movimento del braccio e perciò, quando fuoriesce dal comparatore, il segnale sensoriale è carico della reazione corporea: è diventato sensazione, esperienza di qualcosa che è successo all’organismo. (129)

Movimenti saccadici degli occhi (130)

18 – SENTIRE IL CANTO DEL GRILLO CHE NON C’È

Proprio l’esigenza di un confronto, di una comparazione dei segnali, rende necessaria la presenza di un altro neurone in aggiunta a quelli sensoriale e motorio, un interneurone (come in fig. 24 C). L’interneurone non comunica con l’esterno, né verso un recettore (come fa il neurone sensoriale) né verso un muscolo (come fa il motoneurone), ma è connesso soltanto con altri neuroni (in fig. 24, con quello sensoriale e con quello motorio). (131)

Nel sistema nervoso del grillo (Gryllus bimaculatus), ad esempio, un singolo interneurone si estende lungo l’intero sistema nervoso dell’animale, con ricche arborizzazioni in ciascun ganglio. Tale interneurone sembra incaricato di mediare la copia efferente (alias scarica corollaria) per il canto del grillo. Il grillo, come molti insetti, ha in effetti gli organi dell’udito sugli arti (tarsi) anteriori. (132)

Schizofrenia: le allucinazioni uditive hanno una prevalenza media del 60 per cento nei soggetti affetti da questo disturbo. Nei pazienti schizofrenici, invece, il mancato invio della copia efferente potrebbe determinare una maggiore attivazione della corteccia uditiva, che scambierebbe il linguaggio stesso del paziente, o la sua programmazione motoria, per la voce di altri….In effetti Feinberg si è spinto molto più in là con l’ipotesi. Seguendo l’idea del neurologo John Hughlings Jackson (1835-1911) che il pensiero sia semplicemente l’espressione più complessa della nostra attività motoria, ha immaginato che al pensiero stesso possano essere associate scariche corollarie, o copie efferenti, così come accade per le attività sensorimotorie. In questo modo i sintomi più oscuri della schizofrenia apparirebbero in una luce del tutto nuova.

Lev Vygotskij (1896-1934) ha ipotizzato che il dialogo interiore si sviluppi attraverso un processo di internalizzazione del dialogo esterno, quello che intratteniamo a voce alta con gli altri. In effetti anche il dialogo interiore è accompagnato da movimenti muscolari della laringe, che però sono minimi e rilevabili soltanto tramite l’elettromiografia. L’area di Broca si attiva anche con il dialogo interno.

Un disturbo nei meccanismi della copia efferente può spiegare altri sintomi psicotici oltre all’udire le voci, come ad esempio l’impressione di essere sotto il controllo di forze esterne, che deriverebbe proprio dall’incapacità di prevedere le conseguenze sensoriali delle proprie azioni.

Effetto Kohnstamm: spingere le braccia verso esterno contro gli stipiti di una porta, dopo un minuto lasciare le braccia e si sollevano in modo autonomo.(134)

19 – FARSI IL SOLLETICO DA SOLI

Kismesi: sensazione di prurito da leggero tocco della pelle

Gargalesi: sollletico provocato da altra persona. Provoca risata: secondo una ipotesi si sarebbe evoluto come un mezzo di comunicazione fra genitori e prole. Forma di comunicazione esplicita. La ragione per cui non possiamo farci il solletico da soli non dipende da un riconoscimento psicologico del ruolo dell’altro, ma è legata al meccanismo della copia efferente. Tuttavia le sensazione tattili non sono annullate, c’è una gradazione molto variabile da individuo a individuo.(138)

Pare che i pazienti schizofrenici siano in grado di farsi il solletico da soli, possono in varia misura farsi il solletico da sé stessi anche individui psicologicamente sani che hanno punteggi elevati sulle scale che misurano i tratti di personalità simil- schizofrenica, individui dotati per esempio di un’immaginazione vivida e proclivi a forme leggere di comportamento paranoide.

Anche per le persone che non mostrano alcun tratto schizofrenico c’è un modo per solleticarsi da sole. Il trucco è introdurre un leggero ritardo temporale tra il compimento dell’azione motoria e la conseguente stimolazione sensoriale.(140)

20 – LA SCARICA COROLLARIA DEL PENSIERO

Feinberg non solo ha avuto per primo l’idea che un difetto della copia efferente sia alla base dei disturbi schizofrenici, ma l’ha estesa ai processi ordinari del pensiero, sollecitando così una domanda cruciale anche al di fuori dell’ambito ristretto della psicopatologia, una domanda che ci riguarda tutti: come sappiamo che i nostri pensieri sono «nostri»? (143)

L’esperienza così tipica del disturbo schizofrenico di essere controllati da altre persone o da agenti sovrannaturali potrebbe essere il modo in cui il paziente cerca di rendere conto del fatto che certi pensieri sembrano sorgere in modo indipendente, slegati cioè dal loro generatore usuale, il soggetto medesimo.

Quello che Feinberg propone è che i meccanismi di copia efferente operino ai livelli più elevati delle funzioni integrative del sistema nervoso, al livello del pensiero, che sarebbe una forma sofisticata di atto motorio, distinguendo tra quelle attività di pensiero che sono autogenerate dal soggetto e quelle che sono indotte dall’esterno. (144)

21 . SENTIRE E COGITARE

Trovo parimenti erroneo il corollario dell’ipotesi, ovvero che si possa dedurre la presenza di coscienza dalla complessità cognitiva manifestata nei comportamenti, che costituisce l’argomento principe di tanta retorica animalista: il cane (o lo scimpanzé o il delfino o qualsiasi altra creatura…) che risolve un problema complesso, che mostri ad esempio i barlumi di una teoria della mente, come potrebbe non essere senziente? 

Piccioni, galline, scimmie e pesci sono tutti capaci di risolvere problemi di inferenza transitiva. (146)

Gli studi che rivelano la capacità degli animali non umani di risolvere problemi di inferenza transitiva, pur interessanti e importanti, non ci dicono che poiché sono capaci di prestazioni cognitive complesse gli animali non umani siano perciò senzienti: gli esseri umani conducono le stesse attività in assenza di coscienza. Questa è la ragione per cui mi lasciano freddo le teorie sulla coscienza che postulano la sua apparizione a partire da una qualche non
meglio specificata soglia di complessità del sistema nervoso. (150)

22 – TRACCE DEL SENTIMENTO

il cervello dei primati sarebbe dotato di due vie per l’elaborazione degli stimoli, una via ventrale, responsabile del riconoscimento consapevole degli stimoli, e una via dorsale, responsabile della rappresentazione degli stimoli in vista di un’azione su di essi, rappresentazione, quest’ultima, che sarebbe inconsapevole. (153)

l’occhio si fa ingannare, ma la mano no.

Ciò che questi studi suggeriscono, assieme a molti altri simili condotti su pazienti con lesioni selettive alla via dorsale oppure ventrale, è che vi siano due varietà del vedere: vedere per percepire e vedere per agire. (154)

 

Agnosie visive e agnosie per i colori (156)

animali di altre specie possono essere sensibili allo stesso tipo di illusioni che sperimentiamo noi: potrebbero infatti essere suscettibili alle illusioni nei termini del comportamento visivo, senza però che questo comportamento sia accompagnato da consapevolezza, come accade nella vista cieca.(157)

L’illusione, secondo la mia ipotesi, si verificherebbe nel regno di «ciò che accade a me» piuttosto che in quello di «ciò accade là fuori». (158)

23 – E INSOMMA…

Mi sembra sostenibile la congettura che le forme essenziali del pensiero, quali si manifestano nelle operazioni inferenziali che possono essere condotte circa la collocazione nello spazio e nel tempo degli oggetti, numerabili e non, che popolano il nostro mondo fenomenico, e circa le cause dei loro comportamenti, sia la medesima in tutti gli organismi animali, perlomeno nella sua manifestazione immediata e implicita. Osservo infatti che le forme essenziali del pensiero si palesano nelle creature dotate di cervelli miniaturizzati, e ne deduco perciò che le operazioni di calcolo che le sostengono debbano essere relativamente semplici e necessitino di un numero tutto sommato modesto di cellule nervose.

Le strategie di calcolo, gli stratagemmi originali che son stati messi a punto nel corso dell’evoluzione per estrarre e classificare le informazioni sembrano aver fatto la loro comparsa fin dagli albori della costituzione dei cervelli. E le migliorie successive paiono essere più di quantità che di qualità: memorie più capaci, strategie di calcolo parallelo…

La trovata più notevole, la nascita dell’esperienza – la coscienza –, si manifesta per la prima volta, io credo, con la necessità per l’organismo di distinguere tra la stimolazione autoprodotta dalla sua stessa attività e quella che gli viene invece procurata dal resto del mondo (qualunque cosa esso sia) là fuori. Ciò manda a effetto la condizione minima per l’esperienza, un interno che si definisce in maniera attiva rispetto a un esterno. Penso perciò, assieme a molti altri, che il circuito feedforward della copia efferente abbia giocato un ruolo chiave nella nascita della sensazione cosciente, che sia stato in particolare alla base della distinzione tra le due province, ipotizzate per primo da Thomas Reid, in cui abitano le creature che si muovono attivamente nel mondo: quella del sentire e quella del percepire. (160-161)

Esperienza =coscienza:  l’idea che vi sia un sistema che confronta il segnale feedforward della risposta corporea con il segnale sensoriale in ingresso per distinguere, per la prima volta nella storia della vita sulla terra, ciò che accade a me da ciò che accade là fuori.

Non trovo plausibile l’idea, così popolare tra i miei colleghi, che la coscienza debba misteriosamente emergere una volta che il sistema nervoso abbia raggiunto un certo grado di complessità.

È possibile per gli esseri umani trarre inferenze logiche sofisticate in assenza di consapevolezza dell’esecuzione delle stesse, sia nella forma sia nel contenuto. Accolgo perciò con favore la congettura (lo ammetto, non ancora provata) che semplici computazioni condotte da poche, umili e umide cellule costituiscano un substrato plausibile della coscienza, nella sua manifestazione essenziale: la capacità di sentire, di avere esperienze. (162)

*****NOTE*****

Racconto sempre ai miei studenti che «mente» non dovrebbe essere usato come sostantivo, perché si tratta, come aveva già sostenuto il biologo evoluzionista Ernst Mayr per la parola «vita», della sostanzializzazione di un processo. La vita e la mente sono processi, non sono sostanze. Si dovrebbe dunque dire, se la grammatica lo permettesse, «mentare» per indicare i concreti processi del sistema nervoso, abbandonando l’uso del sostantivo «mente». In attesa di questa improbabile riforma del lessico, considerate con indulgenza l’uso puramente convenzionale che della parola «mente» viene fatto in questo libro, da intendersi comunque quale stringato succedaneo per «quello che il cervello fa». (165)

Amnesia infantile (166). La capacità di formare memorie stabili andrebbe quindi di pari passo con la diminuzione della capacità di generare nuovi neuroni. (167)

Rosmini afferma che le sensazioni implicano l’immediata coscienza della nostra corporeità, di cui non sono altro che le modificazioni. Ma un’immediata coscienza della nostra corporeità non ha ragione di esistere se non vi è circostanza alcuna in cui sia necessario distinguere se le modificazioni che in essa avvengono sono prodotte dal corpo medesimo o da qualcosa di esterno ad esso. Perché mai altrimenti si dovrebbe sentire il corpo o sentire checchessia? Solo quando un interno si definisce attivamente rispetto ad un esterno c’è «sentimento». (181)

Le cellule con attività eccitatoria sono responsabili della sensazione quando una stimolazione fa venir meno l’inibizione. Quando la scarica corollaria inibisce il segnale della sensazione sul lato recettoriale, rimane il solo segnale responsabile della percezione. (183)

E le piante? (184) In linea di principio non sarebbe impossibile concepire un meccanismo di copia efferente nelle piante, ma il problema è che in assenza di movimenti attivi manca un modo per segnalare l’avvenuto spostamento o il comando per lo spostamento. Si potrebbe obiettare che basta lo spostamento in quanto tale a svolgere la stessa funzione, ma la segnalazione che una fonte di stimolazione è il prodotto di uno spostamento della pianta la cui superficie ha incontrato lo stimolo stesso, anziché dello stimolo che ha impattato la superficie della pianta, richiederebbe memorie lunghissime. Quando arriva la stimolazione sulla superficie e una copia viene inviata al comparatore il confronto dovrebbe essere fatto per uno spostamento che può aver avuto inizio qualche settimana o qualche centinaio d’anni prima.

Dolore: risposta puramente prossimale come il dolore sia comparsa solo dopo l’avvento di meccanismi di feedforward quale quello di scarica corollaria, perché secondo me prima doveva esserci solo nocicezione, senza cioè esperienza del dolore. (185)